Domenica 7 Dicembre 1941, alle prime luci del mattino il Giappone attacca a sorpresa la base navale americana di Pearl Harbor, sull’isola di Oahu, nelle Hawaii. Pearl Harbor, la più grande base navale americana e l’unica permanente al di fuori del proprio continente, rappresentava un punto nevralgico di fondamentale importanza per gli interessi americani nel Pacifico e simultaneamente una presenza scomoda per il Giappone.
Ottantadue anni fa, il Giappone attacca Pearl Harbor. Ma cosa successe prima? Sebbene esistesse un’importante tensione tra le due nazioni per il controllo di quelle aree, anche a causa dei comuni interessi nel sud-est asiatico, la guerra tra USA e Giappone non sembrava imminente.
PRIMA DI PEARL HARBOR
Gli Stati Uniti avevano attuato un embargo sulle materie prime e sui lavorati industriali nei confronti del Giappone, al contempo il Giappone – si scoprirà – pianificava in segreto l’operazione.
A capo, Isoroku Yamamoto, che aveva iniziato a occuparsene già agli inizi del 1941, mobilitando i mezzi militari coinvolti nel mese di novembre, in attesa dell’autorizzazione definitiva da parte dell’imperatore Hirohito, che arrivò il primo dicembre. Mentre i diplomatici giapponesi e statunitensi negoziavano a Washington, le unità aeree e navali giapponesi attaccavano la base statunitense.
La dichiarazione di guerra infatti giunse alla Segreteria di Stato americana soltanto ad attacco già iniziato, e il preavviso – dallo strettissimo margine di mezz’ora- era solo un tentativo da parte dei giapponesi di salvare la faccia e considerare a norma delle vigenti leggi di diritto internazionale le sue azioni.
IL GIAPPONE ATTACCA PEARL HARBOR
L’operazione aveva come obiettivo quello di distruggere e mettere fuori uso il grosso della flotta navale statunitense ferma nel porto, le aviorimesse per limitare la controffensiva e obiettivi secondari come centri di comando e magazzini. Organizzata in due raid, con una mobilitazione di più di 300 aerei e una trentina tra sottomarini e sommergibili, l’operazione durò circa due ore. Fu una sorpresa per tutti e colse le forze della difesa americana totalmente impreparate a fronteggiarla o a ridurne gli effetti.
I danni per le forze statunitensi furono pesantissimi: 2000 americani morti, più di 1000 feriti, 12 navi affondate e 188 aerei distrutti. Dal canto loro i giapponesi potevano dir riuscita l’operazione, date le perdite trascurabili – 29 aerei distrutti, 5 navi affondate, un centinaio di morti – e il tremendo colpo inferto a quello che era stato individuato come il più temibile avversario per le ambizioni imperiali di Tokyo. Nelle ore successive dello stesso giorno, il Giappone attacca anche le Filippine e l’isola di Guam, allora sotto il controllo degli Stati Uniti, e le colonie inglesi di Malaya e Hong Kong.
Il giorno seguente il presidente allora in carica Roosevelt si rivolge così al congresso:
Ieri, 7 dicembre 1941 – una data che resterà segnata dall’infamia – gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati da forze aeree e navali dell’Impero del Giappone. Gli Stati Uniti con loro erano in pace e su sollecitazione Giapponese, eravamo ancora in fase di colloquio, col loro governo e con l’imperatore, per mantenere questo status nell’area Pacifica. Come comandante in capo della Marina militare ho disposto che tutte le possibili misure siano prese per la nostra difesa.
È con questo discorso che gli USA entrano a far parte della Seconda Guerra Mondiale, ponendo fine al loro isolazionismo e provocando in tal modo un improvviso rovesciamento degli equilibri in favore delle forze alleate. La guerra era iniziata da due anni. L’anno prima, nel 1940, il Giappone aveva firmato un’alleanza difensiva con l’Italia e la Germania, che nel frattempo era impegnata in un’ambiziosa operazione militare contro l’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti, invece, non erano ancora intervenuti.
GLI ESITI DELL’OSTILITA’
Come scrive Bernard Millot ne La guerra nel Pacifico:
Quasi tutti gli americani nel continente seppero dalla radio la notizia sorprendente… Si trattava di un brutale risveglio alla realtà. I comunicati, in mancanza di particolari, sottolinearono il carattere infamante di quell’attacco a tradimento… il colpo era violento e doloroso, ma aveva in sé quel germe fecondo che doveva galvanizzare gli americani… L’importanza attribuita a questa retorica intorno alla parola infamia aveva in realtà lo scopo da un lato di nascondere l’impreparazione delle forze armate statunitensi e dall’altro, di trascinare l’America in una grande guerra punitiva.
Non la faremo finita con loro, finché il giapponese non sarà parlato solo all’inferno, disse William Halsey, ammiraglio statunitense mentre il Giappone attacca Pearl Harbor
E fu così che alle otto di mattina del 6 agosto del 1945 un bombardiere americano lancia sulla città giapponese di Hiroshima Little Boy, una bomba nucleare di oltre 4 tonnellate che, insieme a quella di Nagasaki tre giorni dopo, posero fine alla guerra. Decretando in tal modo il capitolo finale nel confronto tra le due nazioni e tramite il quale l’umanità assisterà agli effetti devastanti della scelleratezza umana con due città completamente rase al suolo e più di 200.000 persone morte.